Italiani, debito pubblico e pensione complementare: intervista a Francesco Vecchi

Francesco Vecchi, classe 1982, è giornalista, conduttore televisivo e scrittore. Laureato all’Università Bocconi ha lavorato per Mediaset (Tg5 e TgCom24) dove attualmente conduce il programma di attualità Mattino Cinque e collabora con il Corriere della Sera e con Linkiesta.it. Nel 2019 pubblica per Piemme il suo ultimo libro I Figli del Debito. I Figli del Debito racconta di una generazione, la Debt Generation, arrabbiata non solo con la politica, ma anche con la generazione precedente visto l’elevato debito pubblico lasciato in eredità. Il libro presenta interviste a personaggi illustri come l’economista Guido Enrico Tabellini che analizza il problema del debito pubblico italiano o l’ex ministra del lavoro e delle politiche sociali Elsa Maria Fornero che con la sua riforma ha cercato di  salvare i conti pubblici, nonché racconti di giovani che per lavorare fuggono all’estero o che restando in Italia rimangono spesso sottopagati. “Questo libro è un viaggio alla radice economica del malessere e delle frustrazioni, è la storia di una grandissima fregatura, nata dal sogno di far correre i propri figli e finita per azzoppare i figli di tutti”.
Partiamo dal tema principale del tuo libro, non a caso intitolato “I Figli del Debito”. Il nostro Paese si contraddistingue per un debito pubblico in continuo aumento “nonostante un surplus primario” per colpa delle generazioni precedenti (elettorato compreso). Una domanda “semplice”: c’è modo di uscirne? Possiamo fare qualcosa noi che stiamo raccogliendo solo le conseguenze negative delle scelte fatte in passato?
C’è sicuramente modo di uscirne, basta volerlo. Dal punto di vista economico basterebbe riuscire a congelare (neanche ridurre, congelare!) la spesa corrente per qualche anno e utilizzare le risorse per fare investimenti. In breve tempo la crescita provocata dagli investimenti da una parte e la spesa bloccata dall’altra riporterebbero il rapporto tra debito e pil a un livello di guardia. Il punto è: lo vogliamo? Siamo consapevoli che è necessario intervenire per ridurre il debito o no? Tra un politico che ci promette di mandarci in pensione prima e uno che promette un vero piano di investimenti, noi alla fine chi scegliamo?
Parlando invece delle riforme del sistema pensionistico italiano, giudichi quelle degli anni ‘90 (come la riforma Dini o la legge Treu) discriminanti sulla base dell’età, al contrario della riforma Fornero. Spesso proprio quest’ultima viene vista come negativa, ma da chi, dai giovani? Tu, da “figlio di questo debito”, perché la ritieni più equa per il sistema?
Tutte le riforme messe in campo dal 1992 in poi, cioè da quando, firmati i patti di Maastricht, è stato necessario mettere sotto controllo i nostri conti pubblici hanno avuto una terribile caratteristica comune: sono state scaricate sulle generazioni future. Pensione contributiva? Solo per chi lavora da poco. Flessibilità e contratti a termine? Solo per chi un lavoro non ce l’ha ancora. La Riforma Fornero ha avuto il merito di non fare distinzioni anagrafiche, anche se è arrivata, e non certo per colpa della Fornero troppo tardi. La pensione di mio padre è calcolata tutta con il retributivo, fatta eccezione per la quota versata negli ultimi 4 anni della sua carriera, cioè dal 2012 in avanti, perciò figuramoci… Anzi, proprio il fatto che la riforma Fornero sia stata così tardiva l’ha resa più dura di quello che sarebbe stato necessario se solo si fosse accettato di riequilibrare il sistema qualche anno prima. Se ci fosse stata questa consapevolezza, non si sarebbe dovuto imporre un’uscita dal lavoro a 67 anni, ma magari sarebbe stato sufficiente a 65. E’ questo l’aspetto per cui è così criticata la riforma: lavorare fino a 67 anni è stato considerato come un crimine dell’umanità. Quando a 67 anni, ogni esperto di marketing sa, che si è ancora un big spender: macchine sportive, vacanze, consumi. Ora, se si è giovani abbastanza per andare in Argentina e guidare una Maserati, lo si è anche per continuare a lavorare. Godersi la vita va bene, ma se lo fai coi soldi tuoi. Se lo fai coi soldi dei più giovani, allora i giovani avrebbero diritto di indignarsi.
Per sviluppare il tuo ragionamento hai intervistato diversi personaggi importanti, tra cui l’economista Guido Enrico Tabellini e l’ex ministra del lavoro e delle politiche sociali Elsa Maria Fornero.  Quanto hanno contribuito questi incontri nella stesura del tuo libro?
Entrambi hanno arricchito molto la mia visione. Tabellini mi ha in qualche modo anche inquietato nel senso che, spietatamente e lucidamente, traccia un’analisi dei nostri conti attuali come poco sostenibili. Poco sostenibili non tanto per i dati in sé, ma soprattutto per la mancanza di consapevolezza, per il modo in cui al momento li stiamo affrontando. Questo mi ha un po’ spaventato. Mi ha inoltre sorpreso il suo discorso sull’euro. A suo parere e probabilmente con il senno di poi l’introduzione dell’euro non ci ha giovato più di quanto ci abbia danneggiato, ma oramai non ti puoi buttare da un aereo se scopri che hai sbagliato direzione. In questo momento l’unica cosa da fare è cercare di tenere i conti sotto controllo tuttavia, manca in questo senso la volontà politica. A mio parere, il discorso della consapevolezza che potrebbe sembrare aria fritta risulta invece uno dei più importanti. Lo scrivo anche nel libro, durante la generazione dei miei genitori, negli anni in cui il paese andava alla malora, la parola debito pubblico è comparsa sulla prima pagina del Corriere della Sera solo 50 volte in 10 anni. Non credo che siano stati necessariamente egoisti, ma credo che in molti casi siano stati inconsapevoli di quello che succedeva o che sarebbe successo al paese proseguendo con quei trend. Passando alla Fornero, la ringrazio molto nel libro perché raccontarsi umanamente non è facile, anche per il suo carattere che ha sempre cercato di celare le emozioni. Ricordiamo tutti le lacrime, di cui se glielo si chiede si vergogna ancora un po’ e si infastidisce che la gente le chieda sempre quello. Credo tuttavia che questo genere di racconto anche un po’ umano e di emotività faccia capire e sia più utile rispetto ad altri discorsi più razionali in quanto fa capire che, in un momento di emergenza è stata chiamata a fare quello che i politici non hanno mai voluto fare per paura di perdere il proprio consenso. Lei che non era “politica” ha dimostrato che paradossalmente i politici avevano ragione: è stata massacrata ed un motivo c’era se la materia pensionistica non era stata toccata da nessuno per anni.
Venendo al mondo del lavoro: il quadro descritto nel tuo libro è quello di italiani che fuggono all’estero o che rimangono da sottopagati. Come trattenerli? I centri per l’impiego potrebbero giocare un ruolo più efficace?
Devono giocare un ruolo più efficace: a volte è capitato di trovare lavoro a qualcuno durante una mia trasmissione. Perché c’è gente che cerca lavoro ma c’è anche un sacco di gente che cerca lavoratori. Mettere mano ai centri per l’impiego sarebbe dovuta essere la fase 1 del reddito di cittadinanza, non la fase 2. I giovani che vanno all’estero sono una perdita, certo. Ma a me non preoccupano i giovani che vanno all’estero: mi preoccupa che pochissimi giovani dell’estero vogliano venire in Italia. Perché? Ce lo siamo chiesti? Non siamo forse un paese leader in molti campi? Non facciamo qui l’automobile più bella del mondo, la Ferrari? E non siamo comunque sia una potenza economica? La verità è che se guardiamo al livello di reddito pro capite siamo sì una potenza economica, ma non per i giovani. I giovani guadagnano troppo poco e ogni sforzo andrebbe fatto per alzare i loro stipendi.
Nel libro scrivi anche dell’iniziativa dell’INPS, la famosa busta arancione. Come racconti, purtroppo poche persone hanno ricevuto questa comunicazione. Ritieni che una nuova campagna destinata a tutti i cittadini possa essere utile?
Assolutamente sì. E non si capisce perché un’iniziativa intelligente e poco costosa sia stata interrotta. Non ha senso, a meno che non si voglia tenere i giovani in uno stato di inconsapevolezza per poi vederli manifestare in piazza, magari contro la Fornero, cioè contro i loro stessi interessi. Io penso però che nei giovani che lavorano per davvero qualcosa sta cambiando: sta emergendo la consapevolezza dell’enorme fregatura che si sono presi.
Nella busta arancione, ad esempio, si apprende solo la “cattiva notizia” per i più del “gap previdenziale” e non viene fornita la soluzione, che fortunatamente c’è: la pensione integrativa. Ad esempio, attraverso un fondo pensione cui è iscritto il figlio, un genitore può versare parte della sua pensione pubblica aiutando a costruirsi una pensione integrativa. Può essere questa una soluzione alla discriminazione intergenerazionale di cui tanto parli nel libro? E più in generale, ritieni utile la previdenza integrativa a tutela di pensioni di base insufficienti?
Di certo penso che la pensione integrativa possa essere uno strumento fondamentale per il futuro. Posso ben immaginare un futuro nel quale ognuno è libero di costruirsi la pensione come ritiene più giusto e contemporaneamente sia controllato e obbligato dallo Stato a farlo. In quel futuro non ci sarebbero squilibri intergenerazionali, non ci sarebbero polemiche sull’età pensionabile. Ci sarebbe solo la propria responsabilità e allo Stato sarebbe lasciato il compito di controllare, tutelare e anche, perché no, di proporsi come alternativa di mercato. Il problema è che non so con quali strumenti passare dall’attuale regime a quello che abbiamo descritto. Come fa la generazione attuale, per esempio, con gli stipendi bassi che ha a pagare la pensione dei propri genitori, e contemporaneamente la propria? Ma queste sono domande a cui lascio rispondere a voi.
Concludiamo con qualcosa di più “leggero”: all’inizio del tuo libro racconti che sei nato in pieno Mondiale del 1982 periodo quello pieno di grandi successi italiani. Oggi tifiamo la Nazionale di Roberto Mancini, una squadra profondamente rinnovata e piena di giovani talenti. Non pensi che “l’approccio Mancini” possa rappresentare la strada che tutti noi nonché il paese debbano percorrere?
Assolutamente. Penso che la Nazionale di Mancini sia una ventata di freschezza. Piace a tutti. A chi è che non piace l’idea che uno riesca a coltivare un nuovo progetto dicendo da come stavamo con l’acqua alla gola, piuttosto costruiamo qualcosa per l’avvenire. Io infatti sono abbastanza ottimista sul futuro del paese. Proprio perché poi alla fine le cose le capiamo. Io non so quale sarà il destino di questi talenti della Nazionale però alla fine penso nessuno creda si tratti di una strada sbagliata. Ritengo piuttosto che tutti sappiamo che questa è la strada giusta per cercare di puntare su qualcosa di futuribile. Alla fine, ci sono mille e mille analisi sul perché la produttività del paese da tanto tempo non cambia, ma io ho una risposta semplice: abbiamo lasciato in panchina i giovani che sono quelli che portano produttività ed energia. Per ogni lavorata magari si fanno venire un’idea nuova, magari ci mettono il doppio dell’energia, perché è fisiologico che sia così. Insomma, quando uno comincia è giovane e rampante, poi lo aiuta l’esperienza, e magari con il passare del tempo uno “è anche stufo”. Credo, per semplificarla, che l’economia italiana sia poco produttiva in quanto rispecchia il sentimento della maggioranza dei suoi lavoratori, cioè è stufa.

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